LUCILLA CUOCA INCANTEVOLE

Dal romanzo inedito “Le figlie del Sole”

LUCILLA CUOCA INCANTEVOLE

5° capitolo

Pak Mong si trova nella parte nord della Repubblica Popolare Democratica del Laos, uno Stato del sud-est asiatico, che non ha sbocco sul mare, a pochi chilometri dalla Cina, dal Vietnam e dalla Birmania. Proprio in questo paesino che spesso è il punto di partenza per la maggior parte dei tour del Laos, viveva una famiglia molto povera, seppur ricca di figli e di amore.

Lucilla, la maggiore, era una bambina che le ristrettezze economiche e la situazione politica avevano resa assai intraprendente fin dalla più tenera età. Ancora in fasce e all’insaputa dei suoi genitori, venne baciata in fronte da una piccola scheggia luminosa proveniente dal sole. Peccato che né lei, né la sua famiglia si resero conto del valore da attribuire a quel dono gratuito del cielo.

Appena in grado di badare a se stessa, venne affidata a Lucilla la cura dei suoi fratellini, che anno dopo anno continuavano ad arrivare puntuali come le bollette. Instancabile non sapeva cosa volesse dire la parola difficoltà, per lei esistevano solo dei problemi che in un modo o nell’altro dovevano essere risolti e li risolveva sempre, primo fra tutti quello dell’approvvigionamento.

Ogni giorno, con poche cose a sua disposizione ella riusciva a creare piatti abbondanti e soprattutto assai gustosi. Forse per via dei continui impegni e della stanchezza, nessuno ci aveva mai fatto caso, ma le vettovaglie in quella famiglia non mancavano mai, come non mancava la seconda portata per tutti, anche per gli ospiti. Si era infatti sparsa la voce che a casa sua, nessun povero o senza tetto veniva scacciato e ciclicamente – per non crearle problemi – bussavano alla porta chiedendo un pasto caldo, che non veniva mai negato, apportando un’insolita forza, coraggio ed energia. Il padre a volte si impuntava dicendo che non ce ne sarebbe stato abbastanza per loro, che non potevano mantenere tutto il vicinato, ma alla fine doveva rassegnarsi all’evidenza, perché mai lo aveva lasciato privo del sostentamento. Il cibo finiva solo, quando l’ultimo commensale era più che sazio.

Nello stesso paese viveva un uomo molto avaro e privo di scrupoli. Quando un senza tetto bussava alla sua porta elemosinando un pezzo di pane, egli lo scacciava in malo modo a volte addirittura con calci e sassi. Si giustificava poi coraggiosamente, con una frase ormai nota a tutti:

«Non posso certo mantenere ogni nullafacente della zona!» e puntualmente senza scrupoli gettava il povero disgraziato in mezzo alla strada.

La leggenda di Khun Borom

Arrivò però il giorno in cui un clochard, gli fece presente che c’era chi non solo condivideva, ma lo faceva con amore e senza perdere nulla. L’avaro Lao, che si vantava di essere un diretto discendente di Khun Borom – creatore del mondo – non si fece scrupoli nell’afferrare per il bavero il malcapitato per sapere il nome di chi osava tanto. Il suo primo pensiero fu che vi fosse a Pak Mong qualcuno ben più ricco di lui. Rimase assai stupito e incredulo quando questi gli disse che si trattava della famiglia più povera.

«Impossibile! Stai mentendo!» disse rigettandolo in mezzo alla strada.

Dopo essersi chiuso alle spalle l’uscio con un grande frastuono, a motivo della sua indignazione, cercò di rimettersi al lavoro, ma non riusciva a pensare ad altro che a quelle persone che – a suo dire – si spacciavano senza pudore per altruisti. Deciso a dimostrare che nessuno fa niente per niente, volle verificare con i propri occhi quanto gli era stato riferito.

Quando si trovò nei pressi dell’abitazione di Lucilla, vide distintamente persone indigenti e tristi, uscire soddisfatte ringraziando con inchini e promesse, coloro che – a quanto poteva capire – li avevano rifocillati. Si avvicinò per guardare meglio, sempre cercando di prestare la massima attenzione. Il luogo era evidentemente povero e sciatto. Come facevano quei disgraziati a trovare il denaro necessario per sfamare tanta gente? Quella domanda si trasformò presto in un chiodo fisso, tanto che non passarono molti giorni che l’avaro Lao si travestì da mendicante per appurare se le chiacchiere sul conto di quella famiglia fossero vere.

Bussò alla porta di Lucilla e questa, che reggeva con un braccio un bambino e con l’altra mano un mestolo, gli sfoggiò uno dei suoi migliori e splendidi sorrisi che lo spiazzarono.

«Oh, buon uomo, è molto presto per la cena. Non sono ancora pronta, ma se vorrete accomodarvi sarete il primo ad essere servito.»

L’uomo finse gratitudine e si mise ad osservare bene tutte le mosse di Lucilla. Questa andava da una parte all’altra della cucina sempre con il bimbetto sbraitante in braccio, tagliava, rimestava, sbucciava e impastava con grazia e allegria. Quella che era una piccolissima pagnottella la vide diventare un voluminoso impasto, pronto per essere cotto nel forno ed essere servito come una specie di filoncino, che di lì a poco sarebbe stato riempito di verdure fumanti, il Khao Jee; molto pratico per chi – non volendo entrare – si sarebbe accontentato di riceverlo dalla finestra. Quel magro contorno non servì solo a quello, infatti ciò che non avrebbe potuto sfamare nemmeno un coniglietto nano, saltellando allegramente nella grande padella fu sufficiente per condire diversi piatti, tra i quali una profumatissima zuppa di noodles. Per non parlare della piccola salsiccia grande quanto una coscetta di pollo che nelle sue mani divenne un delizioso Sai Oua. Una specie di spezzatino servito con una salsa chili ed ovviamente lo sticky rice.

Lucilla gli chiese di reggere il bimbo per darle la possibilità di apparecchiare. Nelle campagne del Laos, le persone mangiano secondo lo stile familiare tradizionale, sedendo sul pavimento e condividendo i pochi piatti. Nulla deve avanzare.

Lao era incapace di proferire parola dallo stupore.  Non riusciva a capacitarsi di come nessuno se ne fosse mai accorto. Ma la confusione in quella casa era tanto grande che finì per rispondersi da solo. Anche il sapore di ogni pietanza, era ottima e questo fece crescere l’acredine dell’uomo, che per la sua innata malizia venne folgorato da un’idea che aveva lo scopo di volgere a suo vantaggio quella prodigiosa capacità. Si tolse gli stracci e si mostrò quale realmente era.

«D’ora in avanti tu cucinerai per me!» disse l’astuto taccagno.

«Non posso andarmene, chi baderà ai miei fratelli? Mia madre da sola non ce la farebbe e mio padre deve lavorare. Loro hanno solo me.» rispose amareggiata indicando la numerosa prole.

L’uomo promise di occuparsi di tutta la famiglia se lei si fosse spontaneamente occupata di cucinare per lui. A Lucilla sembrò un’ottima idea e stipulò il contratto. Non si trattava però di un buon lavoro come si era immaginata, infatti l’uomo la sfruttò così tanto che non le rimanevano che poche ore la notte per dormire. Chiese di poter avere un po’ di riposo, ma l’avaraccio non ne voleva sapere e aprì altri ristoranti anche nelle città vicine. La fatica divenne, nel giro di pochi anni, insostenibile per Lucilla che si ammalò gravemente.

Per quanto il medico cercasse di curarla, la febbre non sembrava lasciare la ragazza e il testardo imprenditore buttò in mezzo alla strada lei e tutta la sua famiglia, con rimproveri che dovevano svergognarli persino davanti ai passanti.

La madre e il padre di Lucilla la presero sotto braccio, mentre si dirigevano verso casa affranti e pieni di dubbi. Gli anni cominciavano a farsi sentire e con essi gli acciacchi, come avrebbero mantenuto quella numerosa famiglia? Non avevano più lavorato grazie a lei e ora sembrava impossibile rimettersi a fare qualunque cosa. Cominciarono così a rimbeccarsi inutilmente su quello che avrebbero o non avrebbero dovuto fare per evitare quella spiacevole situazione.

I fratelli e il padre rimproveravano la madre che aveva – a parer loro – viziato Lucilla. Le rimproverarono addirittura tutto il cibo che di comune accordo avevano dato ai tanti bisognosi che si erano accalcati alla loro porta, privandoli di una certa ricchezza che ora avrebbe potuto sfamarli.

Arrivati alla casa, la trovarono fatiscente. Era rimasta abbandonata per troppo tempo.  Il tetto era rotto, le scale cadute, dell’erbaccia ricopriva il pavimento. Osservavano quella che in passato era stata la loro seppur misera, ma accogliente dimora con rassegnazione, finché da lontano videro giungere delle luci.

«Ecco ora vengono a picchiarci!» disse uno dei fratelli.

«Presto scappiamo o ci faranno del male.» disse un altro.

Davanti a quella prospettiva, uno dopo l’altro tutti si dettero alla fuga. Solo la povera donna con in braccio la sua bambina febbricitante continuava a piangere silenziosa e rassegnata. Lei non l’avrebbe mai abbandonata, qualunque cosa fosse successa.

Solo quando le luci furono abbastanza vicine le due donne si accorsero che si trattava dei tanti poveri e senza tetto, che avevano aiutato. Ognuno di loro portava qualcosa. Chi aveva in mano degli attrezzi da lavoro, chi del cibo, chi del materiale da costruzione, e tutti si dettero da fare per rimettere in sesto la casa e dare forza a Lucilla.

La giovane, grazie all’amore della madre e di quelle volonterose persone, riacquistò le sue energie e guarì dalla febbre. La casa ora era troppo grande per loro. Decisero di aprire un ristorante, nel quale fecero lavorare i loro benefattori, ricambiandoli con un alloggio decoroso, dove potevano vivere dignitosamente.

L’avaro imprenditore fallì presto e pieno di debiti dovette fuggire all’estero per non essere arrestato e non lo videro mai più.

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