POLA E I CUORI MALVAGI

Dal romanzo inedito “Le figlie del Sole”

POLA E I CUORI MALVAGI

4° capitolo

Sulle rive del Moraine Lake, tra le Montagne Rocciose canadesi, nella bellissima Valley Of The Ten Peaks, vi è un delizioso paesino, abitato da una famiglia che custodiva un’imbarazzante segreto. La loro unica figlia, Pola, era terribilmente brutta e per quattordici anni erano riusciti a tenerla nascosta. Vi parrà strano, perché i neonati tanto piccoli e fragili sono sempre carini, anche solo per quel senso di tenerezza e dolcezza che ispirano, ma credetemi se vi dico che Pola appena venuta al mondo era veramente repellente e crescendo finì addirittura per peggiorare. Non solo suscitava ribrezzo, ma anche paura. Gli stessi genitori faticavano a guardarla.

La fortuna di questa piccola creaturina fu una finestra rimasta aperta davanti alla sua culla, proprio nel momento in cui una minuscola scheggia di sole stava furtivamente entrando in quella casa per posarsi sul suo capino. Da quel momento non sarebbe più stata solo una bambina sfortunata, bensì un essere umano molto speciale, ma lo avrebbero compreso solo molti anni più tardi.

Le prime lezioni gliele impartì la madre e successivamente imparò dal computer quanto c’era da sapere sul mondo. Per giustificare quell’isolamento le dissero che soffriva di una rara malattia che le vietava anche di sottoporsi ai raggi del sole, onde evitare che si affacciasse alle finestre o potesse uscire.

Pola, che non si era mai vista allo specchio, era cresciuta nell’oscurità come fosse la cosa più naturale del mondo, ma attraverso il computer riuscì a comprendere che – al di fuori della sua casa – vi era un mondo di luce, dove le persone potevano guardarsi in viso, amarsi e parlarsi. Aveva visto che poco distante dalla sua casa vi era un paesaggio meraviglioso, con montagne e animali. Da quel momento il suo desiderio di vedere con i propri occhi quelle meraviglie crebbe a dismisura. Quando divenne maggiorenne espresse ai genitori l’edonistica velleità di uscire – a dispetto della sua malattia – con le dovute precauzioni, magari di notte. Dopo tanti anni di segregazione era giunto il momento di fuggire da quella prigione, con o senza il loro permesso.

I genitori disperati per quello che le sarebbe potuto accadere, decisero di impegnare tutte le loro risorse nella ricerca di una soluzione. Sapevano di un luogo – molto lontano – dove le donne uscivano coperte da capo a piedi, mostrando solo gli occhi. Essendo l’unica parte del corpo che si poteva guardare, senza esserne inorriditi, presero presto la decisione che quello era l’unico paese sulla faccia della terra, dove nessuno si sarebbe accorto di quanto era brutta la loro figlia.

Felicissima, Pola non faceva che chiedere la data e l’ora in cui sarebbero partiti. I genitori, inizialmente titubanti, cercarono di tergiversare per acquistare tempo finché, mossi dal desiderio di vedere la loro unica figlia finalmente libera e felice, stabilirono una data. Misero insieme gli ultimi risparmi rimasti e si trasferirono non senza angosce, cercando di convincersi a vicenda, di aver davvero trovato il luogo giusto per loro.

Una volta raggiunto il tanto agognato paese, non fu facile inserirsi nella comunità. Erano tutti assai diffidenti riguardo gli stranieri. I primi tempi vennero studiati con diffidenza, ma le loro maniere caute e garbate, il modo di vestire umile e tanto simile, il fatto che cercavano in tutti i modi di uniformarsi alle loro usanze, li fece prendere in benvolere. Alla fine, i genitori di Pola si sentirono accolti con maggior rispetto di quanto non avessero mai fatto nel loro luogo di origine. Liberi di mostrare la figlia in pubblico, tanto non la poteva vedere nessuno, per quello che era, si sentirono quasi come tutti gli altri, non fosse stato che per quel senso di mancamento che li invadeva al vederla fuori dalle mura domestiche. Il timore assurdo che la veste potesse dissolversi scoprendo il suo vero aspetto era ancora un angoscioso tormento della loro mente. Quando arrivarono quasi ad abituarsi, furono assaliti da altri dubbi e desideri.

«Adesso dobbiamo trovarle un marito.» Si azzardò a dire la madre di Pola. «Non vivremo per sempre. I nostri risparmi sono quasi finiti, come possiamo pensare che abbia di che sopravvivere, una volta che noi non ci saremo più. Non ha nemmeno imparato un mestiere

In quella terra, non era previsto che le donne lavorassero. Erano davvero molto preoccupati. Provarono a cercarle uno sposo, ma nessuno voleva prendere in moglie Pola, poiché era comunque una straniera, finché non la indirizzarono verso un giovane di buona famiglia che desiderava accasarsi. L’unico problema era che tutte le sue mogli, erano morte prematuramente. L’idea di un Barbablù orientale, li fece desistere, fin tanto che non vedendo altre soluzioni, a malincuore accettarono quella prospettiva.

«Forse è solo un giovane sfortunato come noi.» azzardò il padre di Pola «Se è vero che muoiono tutte le sue mogli, io sono sicuro che nel nostro caso sia più facile il contrario. Quando le vedrà il volto potrebbe morire lui dalla paura. A lei rimarrà il suo capitale e almeno non morirà di fame.»

«Ma dovrà vederla solo quando saranno sposati.» replicò ansiosamente la moglie.

Non era certo una bella cosa da pensare, ma se la dissero ugualmente e forti del fatto che fosse l’unico modo che avevano a disposizione per salvare la figlia, si misero a frequentare la famiglia di quell’unico inquietante pretendente. Il ragazzo era piuttosto strafottente e maleducato. Altezzoso e pieno di sé. Sua madre poi, era davvero insopportabile, non faceva che parlare delle doti del figlio, di quanto fosse bravo, bello e ricco. Al contrario, loro non potevano vantare nulla.

Quando decisero che era arrivato il momento di farli conoscere, Pola era davvero emozionata. I genitori le raccomandarono di non togliersi mai la copertura e di non parlare troppo, perché anche la sua voce non era gran che bella. La istruirono a dire solo sì oppure no, preferendo addirittura un solo cenno del capo.

«Sai cara, qui è usanza che le donne non parlino troppo e noi vogliamo che tu faccia bella figura. Vedrai che bel ragazzo e che bella casa. L’importante è che ti comporti esattamente come ti abbiamo suggerito noi.»

Pola appena vide il giovane se ne innamorò. Dopo tutto, era veramente bello. Questo suo stato d’animo non le fece notare quanto fosse però vanesio, egoista e morbosamente attratto da sé stesso, tanto che non alzò mai gli occhi verso di lei, come se davvero non gli importasse nulla della donna che avrebbe sposato. Era stato il padre a convincerlo a fare un ultimo tentativo, per sollevare la famiglia da quelle brutte dicerie sul loro conto.

Nel giro di pochi mesi vennero fissate le nozze. Pola non stava più nella pelle, non vedeva l’ora di essere una moglie. Tutti i genitori invece dell’uno come dell’altra, fremevano per l’agitazione di quello che sarebbe potuto accadere. L’unico che non sembrava darsene pensiero era il giovane narcisista, talmente egocentrico da non preoccuparsi che del suo aspetto. Era più che sicuro che nel giro di una notte, sarebbe tornato single. L’idea non lo allarmava, anzi gli piaceva quest’alone di mistero che gli conferiva, a parer suo, maggior fascino.

In accordo con tutti, le nozze non richiesero molti giorni come era solito fare in quel luogo, ma vennero celebrate di notte e in gran segreto. Per i genitori di Pola andava più che bene. Per i genitori del giovane anche, soprattutto per il padre che non voleva troppo rumore con quel matrimonio che poteva essere l’ennesimo motivo di derisione. Se la sposa non sopravviveva, avevano già predisposto tutto in modo che nessuno ne venisse a conoscenza.

Alla fine della cerimonia i due sposini vennero accompagnati in quella che doveva essere la loro futura residenza. Pola tremava all’idea di essere vista dal marito, che invece, non aveva alcuna voglia di aspettare e di fare smancerie.

Entrati nella camera nuziale Pola vide due bicchieri ricolmi di vino rosso su ogni comodino a fianco dell’enorme letto. La camicia che avrebbe dovuto indossare era da un lato, mentre il pigiama del marito dall’altro. Lo sentì sopraggiungere alle sue spalle e in un solo istante le tolse l’abito nuziale mostrando il suo corpo nudo. Dalla vergogna e dalla paura Pola prese il bicchiere di vino e lo lanciò negli occhi del suo assalitore. Afferrando l’abito da terra, si raggomitolò sotto il letto, mentre lui le urlava contro frasi che non riusciva a decifrare e tremava inorridita per quello che le stava capitando.

«Ma cosa sei? Fatti vedere!» le urlò con rabbia, cercando di afferrarla. Fu a quel punto che toccò una parte imprecisata del suo corpo per poi ritrarsi disgustato. «Che schifo! Ma cosa…?» disse vincendo la repulsione mentre la trascinava fuori «Sei un mostro… Vattene via!» replicò lui che non voleva più nemmeno guardarla.

In quel momento di grande vergogna ella percepì la bruttezza dell’uomo che aveva davanti. Andava ben oltre la sua, perché quando toccava le persone, Pola poteva vederne la loro vera natura e soprattutto far uscire il bello di ognuno. Fin dalla nascita possedeva il dono dell’addolcimento dei cuori malvagi. Nessuno se ne era mai accorto però, perché l’avevano sempre emarginata.

In quel momento Pola lo vide cambiare colore. La sua pelle divenne rossa fiammante, il suo corpo sembrava di fuoco. Un sudore appiccicoso lo stava ricoprendo e un vapore maleodorante stava invadendo l’ambiente. Spaventata da quello che stava accadendo corse verso la porta per fuggire, ma voltatasi un’ultima volta, lo vide a terra come morto. Era tornato del suo colorito roseo. Sembrava tutto passato. Si avvicinò per guardare meglio ed era così bello che non poté fare a meno di prenderlo tra le braccia e posarlo sul letto. Avvicinò le sue labbra alla guancia perché in quel momento provava una grande tenerezza. Spaventata da un suo lieve movimento corse di nuovo alla porta.

«Non so cosa mi sia accaduto, ma ti prego, resta!» le disse il marito ancora intorpidito.

«Vuoi davvero che rimanga accanto a te? Non pensi più che io sia un mostro?»

Senza voltarsi Pola spense la luce e lo raggiunse. Egli provò a prenderle una mano. Stranamente non lo ripugnava. Iniziarono a parlare e lei gli rivelò che non si era mai vista allo specchio. Lui le disse che ve n’era uno nell’anta interna dell’armadio, ma cercò di dissuaderla dal guardarsi. Pola si fece vedere assai determinata a scoprire il suo aspetto.

«Sei davvero sicura di volerlo fare? A me non importa più come sei. Mi hai liberato il cuore, ora lo sento leggero e … ti amo. Questa cosa che provo è meravigliosa. Mi sento felice, molto più di quanto non sia mai stato in vita mia

Lei insistette e lui dovette suo malgrado, accendere la luce. Non voleva però vedere il dispiacere della moglie quando si fosse trovata di fronte al suo vero aspetto, così chiuse gli occhi. Attese un grido, un pianto, ma niente. Attese ancora e alla fine si fece coraggio. Davanti a lui vi era una fanciulla bellissima, non era più la donna di prima. Guardandosi allo specchio ella aveva visto la bellezza del suo cuore e ciò che stava dentro era uscito fuori. Così come quello che stava dentro al giovane se n’era andato, così lei aveva preso il suo vero aspetto. Si corsero incontro e si amarono.

Quando la madre del giovane si recò nella loro stanza per uccidere Pola, poiché era lei, che gelosa del figlio uccideva tutte le mogli, venne toccata anch’essa dalla nuora. Tutta la malvagità che le opprimeva il cuore uscì fuori con quella strana febbre, che aveva colto anche il figlio.

Il giorno seguente venne indetta una grande festa che durò giorni e giorni. Pola riuscì a cambiare il cuore di tante persone, che rese più amabili, si aprirono le une alle altre lasciando più libertà alle mogli e alle figlie. Le donne poterono imparare dei mestieri e lavorare senza più l’obbligo di rimanere completamente coperte.

Pola divenne un’insegnate. Ogni volta che i suoi bambini si comportavano male, con una semplice carezza li correggeva prima che ogni pensiero cattivo potesse prendere piede nel loro cuore. Ogni suo allievo divenne una brava ed onesta persona, ricca d’amore, di pietà e di rispetto per tutti.

I genitori di Pola – dopo qualche tempo – tornarono al loro paese, orgogliosi di mostrare a tutti la loro bella famiglia.

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I CAPELLI DI UNA STELLA

Dal romanzo inedito “Le figlie del Sole”

I CAPELLI DI UNA STELLA

Stella era una bambina timida ma socievole, amava aiutare gli altri senza mai mettersi al centro dell’attenzione. Era stata cresciuta da un’anziana donna appartenente al popolo San i “boscimani” che abitano la regione del Kruger in Sudafrica da almeno 100.000 anni. Non le aveva mai voluto parlare della sua infanzia, non sapeva quindi chi fossero i suoi veri genitori. Ogni volta che faceva domande, la vecchia San ripeteva che era troppo anziana, che non ricordava o semplicemente cambiava discorso, ma una cosa gliel’aveva detta e ridetta tante volte da quando era piccina:

«Tu sei una bambina molto speciale. Quando sei nata le stelle nel cielo hanno fatto festa danzandoti intorno stupite. Una di loro ti ha regalato una luce che non si spegnerà mai. Come il tuo sorriso “my baba”.» E con l’indice, puntualmente le toccava il centro della fronte lasciandosi scappare un’espressione serena, che difficilmente scorgeva il quel viso segnato dal tempo e dalle ristrettezze cui si sottoponeva. Purtroppo, il sorriso della piccola “baba” si spense molto più in fretta di quanto la sua nutrice potesse immaginare.

Il villaggio di Stella era davvero piccolo, eppure apparentemente possedeva tutto quello che le poteva servire per sentirsi appagata, almeno fin tanto che era bambina.

La sua vita, seppur monotona, era scandita dall’avvicendarsi dei suoni alti e bassi dell’mbila, un idiofono che secondo la mitologia bantù, era presente sin dai tempi della creazione del mondo, tanto sacro che anche il suo suonatore veniva considerato una sorta di eletto, un individuo protetto dagli spiriti ancestrali. Ogni lamella presente in quello che a tutti gli effetti le risultava essere il teschio di un animale, rappresentava una fase della creazione e lei si incantava ad ascoltarlo ogni volta che ne aveva la possibilità. Crescendo, riuscì a dimostrare tanto zelo per quello strumento che alla fine, la sua perseveranza venne premiata e seppur di nascosto, ebbe il privilegio di imparare a suonarlo.

Kitenge

Non sembrava mancarle nulla, se non l’affetto di una madre che non aveva mai conosciuto. L’unica cosa che le veniva imposta, era di tagliarsi i capelli una volta al mese. Questo inizialmente non le pesava, ma diventando grande cominciò ad infastidirla. Perché le sue amiche potevano vantare particolarissime treccine, mentre lei era costretta a coprirsi con un kitenge. Un rettangolo di cotone, stampato a cera dalla trama scura su di uno sfondo chiaro. Il tessuto era piuttosto spesso e aveva una bordatura solo sul lato lungo, che amava mettere in evidenza come una specie di corona in grado di farla sentire meno insignificante. Il padre di una sua amica lo aveva portato a casa dopo un viaggio nelle terre dell’ovest e visto che la ragazzina non desiderava indossarlo, glielo donò ben volentieri. Con quella specie di fazzoletto non si sentiva certo più attraente, ma si vergognava meno del suo aspetto.

Un giorno decise di esprimere tutto il suo disappunto per quella presa di posizione della sua tutrice. Quel taglio prendeva sempre più spesso le sembianze di una violenza. Gli amici poi, non smettevano di infastidirla con i loro commenti indelicati, che si stavano arricchendo di dispetti. Il giorno in cui le fecero volare via il suo kitenge, corse a casa in lacrime pronta a scappare se non fosse stata accontentata. Camminare senza quella copertura era stato per lei come mostrarsi in pubblico senza alcun indumento. L’adolescenza era il periodo più appropriato per una sana ribellione.

Supplicò in tutti i modi la vecchia San di non tagliarle più i capelli. Disse di essere disposta a tutto, pur di poterli veder crescere come tutte le altre ragazze della sua età, ma lei fu irremovibile. Quando si rese conto che nulla avrebbe potuto convincerla, Stella giurò che piuttosto che subire un’altra volta quella violenza, sarebbe fuggita. Purtroppo, non bastarono le molte lacrime, i silenzi, le prese di posizione. Quando arrivò il momento del taglio, le forbici erano pronte sul tavolo e la vecchia San la stava aspettando. Stella si nascose in una buca che utilizzavano per tenere al fresco gli alimenti e si rifiutò di uscire senza smettere di supplicarla. L’anziana San appoggiò le forbici e le disse che non le avrebbe potuto tagliare i capelli con la forza, ma che non poteva più tenerla in casa se non lo avesse fatto.

Stella rimase a terra rannicchiata in quella buca dove non avrebbe mai pensato di poter nemmeno entrare, tenendosi le gambe fino a non sentirle più. Calò la notte. Anche il formicolio agli arti per quella scomoda posizione sembrava essere cessato. L’anziana tutrice riapparve con lo stesso sguardo minaccioso. Le disse che il tempo stava per scadere e doveva decidere in fretta. Si fece aiutare ad uscire. Indolenzita e priva di forze, Stella faticava a prendere la posizione eretta. Non aveva più lacrime da versare e si sentiva debole per non aver toccato cibo, ma dopo aver guardato con disprezzo la vecchia Sun, riuscì – senza nemmeno capire come – a ruzzolare fuori inciampando passo dopo passo senza curarsene.

Non aveva una meta, come tutti i folli, mossi solo dalla disperazione.  Si fermò quando le forze l’abbandonarono. In quell’istante fu colta da brividi. Non aveva preso nulla per coprirsi e la notte era piuttosto rigida. I denti stridevano l’uno contro l’altro come i piedi nudi e gelati che si cercavano pestandosi a vicenda. Era necessario trovare un riparo.

Si umiliò bussando alla porta di ogni persona del villaggio che conosceva, ma una dopo l’altra le dissero che non potevano ospitarla per un motivo o per un altro. Avvilita si fermò sotto un grande albero. La stanchezza e il freddo si unirono alla paura di essere assalita da qualche predatore notturno. Raggruppò alcune foglie e si nascose sotto di esse.

Il mattino seguente si svegliò al caldo. Ebbe l’impressione di aver solo sognato, ma una volta aperti gli occhi le scappò un grido, agghiacciante. I suoi capelli erano cresciuti così tanto da crearle una specie di coperta, dalla quale ora faticava a sciogliersi. Provò a divincolarsi, a spostarsi, ma erano troppo fitti e pesanti. Non riusciva a fare un solo passo senza rischiare di essere addirittura soffocata.

Si mise ad urlare e a chiedere perdono, a chiamare l’anziana San affinché venisse ad aiutarla. Quando ormai pensò di non avere più speranza sentì il tanto temuto rumore delle forbici che ora potevano essere la sua salvezza. Non vedeva il volto del suo salvatore, ma in cuor suo non faceva che ringraziarlo e spronarlo a fare in fretta.

Nonostante quelle forbici lavorassero incessantemente le parve che nulla fosse cambiato, anzi, si sentiva venir meno ogni minuto di più. A fatica prima di perdere i sensi riuscì a dire in un lieve sussurro: «Non riesco più a respirare…» la bocca era rimasta aperta, mentre i lunghi capelli la stavano soffocando.

Quando riaprì gli occhi, la vista era offuscata, e solo pian piano si accorse di trovarsi nella sua piccola capanna, mentre il viso familiare della sua tutrice la osservava con un cipiglio per nulla rassicurante.

«Dove sono? Cos’è accaduto?» chiese toccandosi il capo con le mani. Un asciugamano madido lo avvolgeva.

«Non lo togliere o capiterà anche di peggio.» le disse seria San indicando l’uscita «Ora ti mostrerò quello che è accaduto a causa della tua disubbidienza.»

Stella si mise seduta, e a causa di una vertigine, dovette farsi sostenere. Comprese che doveva essere rimasta a lungo incosciente. Timidamente si avvicinò ad una piccola finestrella e vide la terra arida, l’erba secca, solo polvere rossa ovunque, mentre il sole bruciante sembrava aver cotto tutto.

«Ora dobbiamo attendere la prossima luna piena prima di tagliarli nuovamente e speriamo che la situazione migliori presto.» L’anziana donna le spiegò che i suoi capelli crescevano e calavano con le fasi lunari. Se non li avesse tagliati quando la luna era piena, sarebbe stata in pericolo. «Grazie ai tuoi capelli questa valle desertica è rinata, ma senza di essi è destinata a morire.»

«Non posso essere io a fare la differenza. Sono solo una ragazza. Non può dare a me la colpa di tutto

«Esci, guarda con i tuoi occhi. Poi decidi cosa fare.» disse mettendosi a trafficare come se niente fosse tra ciotole e tegami, mentre il suo viso imperturbabile era diventato duro quanto la realtà che stava vivendo.

Una volta fuori dalla capanna vide scene raccapriccianti. Non le sembrava più il suo villaggio. Le persone erano disperate e nemmeno la riconoscevano. I bambini sporchi, dagli abiti consunti si trovavano a pochi passi dalle carcasse di animali morti di fame, ormai in fase avanzata di decomposizione. Solo le mosche sembravano danzare allegre in quello scempio. Uno spettacolo che la fece tornare indietro terrorizzata, rassegnata e piangente. Comprese che non aveva scelta. Quello era il suo destino, per il bene del suo popolo.

Con il tempo tutto tornò alla normalità e le persone accantonarono quel brutto periodo come un evento tragico, destinato a non ripetersi. La loro cultura li portava a non porsi troppe domande, ma a vivere il più possibile fiduciosamente nel presente.  Stella, era l’unica che non poteva farlo, in quanto sapeva quanto fosse importante il suo ruolo.

Con il tempo, si innamorò perdutamente di un giovane che ricambiava il suo sentimento, ma non era disposto a rimanere in quel luogo sperduto tutta la vita. Egli voleva infatti andare per il mondo e dal momento che Stella non poteva rivelare il suo segreto e nemmeno andarsene, si vide costretta a lasciarlo andare solo.

Più cresceva più le delusioni d’amore le rendevano il cuore duro e quando la vecchia San morì, si sentì tentata di abbandonare tutti. Il suo primo amore però tornò dal viaggio intorno al mondo e di nuovo il sentimento più antico e meraviglioso acquietò la sua sete di libertà.

Lui le raccontò le sue esperienze, le parlò di città enormi con strade e veicoli a motore. Gli parlò delle case in muratura, così differenti dalle loro capanne. Ella ascoltava incredula, come una bambina ascolta il proprio maestro raccontare una fiaba. Iniziò a fidarsi sempre più di lui. Nella speranza di essere capita e di non essere mai più lasciata, decise di confidargli il suo segreto. Purtroppo, la modernità aveva reso l’uomo scaltro e opportunista. Una volta scoperto che i suoi capelli possedevano strani poteri, gliene sottrasse alcune ciocche e scoprì che avevano la facoltà di guarire molte malattie. Ne approfittò per farsi pagare ingenti somme di denaro dai poveri ammalati e quando Stella scoprì quello che stava facendo, il dolore che provò nel cuore fu così grande, che i suoi capelli iniziarono a crescere più del dovuto fino a soffocarlo nel sonno.

L’uomo morì ed ella per il dolore e la vergogna si nascose nel Parco nazionale Kruger, la più grande riserva naturale del Sudafrica. Non si mostrò mai più in pubblico, ma alcuni giurano di aver visto i suoi capelli argentati brillare nelle notti di luna piena, prima di essere tagliati.

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CHIARA E LE OMBRE

Dal romanzo inedito “Le figlie del Sole” 

CHIARA E LE OMBRE

 

Chiara vive a Buenos Aires, la grande capitale argentina, a pochi passi dal cuore pulsante della città, ovvero Plaza de Mayo. E’ diventata una bambina molto speciale, nel momento in cui una piccolissima scheggia proveniente da un meteorite – staccatosi dal sole – le si era posato gentilmente al centro della fronte, all’insaputa della sua tata. Da quel momento ella fu in grado di vedere e sentire cose che adulti e coetanei non avrebbero mai creduto possibile.

Era ancora una bambina quando le si presentò davanti un compagno di scuola piuttosto serio. Avrebbe voluto contagiare anche lui con il dono del buon umore, che la metteva sempre al centro dell’attenzione di tutti, ma ogni volta che gli stava vicino il cuore le iniziava a battere fortissimo e la punta del suo nasino diventava fredda come un ghiacciolo, inibendola completamente. Finì per guardarlo solo da lontano. Ogni tanto si azzardava a salutarlo con la mano. Non sempre il bimbo ricambiava quel saluto. A volte aumentava il suo broncio serio per voltarsi altrove e lei ci rimaneva molto male, ma continuava a sperare che prima o poi lui l’avrebbe notata.

Una volta diventata più grandicella i suoi poteri aumentarono e poiché era anche piuttosto intelligente, comprese in fretta che non era il caso di parlare con nessuno di quello che vedeva e sentiva. Faceva davvero una grande fatica a trattenersi, soprattutto quando si trovava in compagnia di quel bambino triste, che le faceva sempre diventare il nasino freddo.

Un pomeriggio di primavera era seduta sulla panchina di un giardino nei pressi della scuola. Stava leggendo un libro, quando il ragazzino le sfrecciò a fianco, urlando dalla sua bellissima bicicletta rossa fiammante. Alzò le spalle e si rimise a leggere. Lui dispettoso le passò nuovamente vicino cantando ad alta voce. Chiara fece un lungo sospiro e riprese da dove era stata interrotta. Per la terza volta egli cercò di attirare la sua attenzione, questa volta con acrobazie pericolose. Chiara ormai stanca di quell’esibizione, si alzò di scatto intimandogli di smetterla. Fu tale la sorpresa del giovane, che cadde a terra ferendosi il ginocchio e un gomito. Ella corse da lui per aiutarlo, ma questi – orgoglioso – non volle il suo aiuto e le ordinò di andarsene. Lei ci rimase molto male. Lasciò improvvisamente la mano che gli aveva preso per aiutarlo e in quell’istante vide un’ombra nera – terribilmente brutta – toccarle il petto e nascondersi nuovamente dietro il giovane, che tornò cupo e malconcio verso casa. Mentre trascinava la sua bicicletta lo sentì rivolgerle alcuni nomignoli poco educati.

Offesa per quel comportamento, raccolse il suo libro, non senza accorgersi che qualcosa di brutto le era capitato. Ebbe l’impressione che quell’ombra le avesse portato via qualcosa dal cuore, perché lo sentiva dolorante. Si guardò bene allo specchio. Apparentemente non le mancava nulla. Eppure, il ghigno di quell’ombra e il dolore che le avevano procurato erano troppo reali per farla stare tranquilla.

Gli anni passarono. Lei si fece sempre più solitaria, quanto bella. Le presentarono un giovane proprietario di una ricca Estancia, un’azienda agricola e turistica, in una fertile e vasta prateria poco fuori città. Egli si innamorò di lei e le propose di sposarla. Chiara non conosceva l’amore e finì per cedere alle sue lusinghe. Lui la portò nella sua grande villa, dove non mancava proprio nulla, anche il paesaggio era meraviglioso. Adorava i cavalli e lì poteva cavalcare ogni giorno, eppure in lei stava crescendo un’incontenibile rabbia. Non riuscire a darsene una valida ragione la faceva entrare in collera anche con se stessa. Non poteva proprio accettare il suo comportamento incontentabile, anche perché il marito la riempiva di attenzioni e di amore.

Un giorno, notò nei propri occhi un’ombra scura. Guardò meglio e si accorse che aveva lo stesso ghigno che tanti anni prima aveva visto nascondersi dietro le spalle del giovane in bicicletta. Spaventata corse via dallo specchio e cominciò a riflettere meglio su ciò che era accaduto. Comprese che il tocco di quell’essere malefico, le aveva oscurato una parte dei suoi occhi, quella che andava diritta al cuore. Era quello il motivo per cui non riusciva a sentirsi felice! Quell’ombra le impediva di amare.

Ogni sera aveva l’abitudine di guardare fuori dalla sua finestra l’orizzonte, ai margini di un fitto bosco, oltre il quale si poteva intravedere il Río de la Plata. Sotto l’influsso di una splendente luna piena, fu attratta da un bagliore improvviso e intermittente. Quella luce era troppo invitante per resisterle. Senza farsi scorgere da nessuno, uscì per una cavalcata fino a giungere là, dove credette essere ancora presente il bagliore. Si trovò davanti un gaucho, con il suo cavallo. Riconobbe in lui, lo stesso giovane caduto tanto tempo prima dalla sua bicicletta, diventato semplicemente più grande. Per la paura, Chiara rimase pietrificata. In quel breve tempo in cui i loro occhi si incrociarono, ella sentì che la punta del suo naso si era raggelata, mentre il cuore batteva impazzito. Cercò di scendere da cavallo, ma per l’emozione fu maldestra e cadde a terra sporcandosi il volto. Egli le andò vicino per aiutarla. In quello stato però, non la riconobbe. Nel momento in cui si sfiorarono, apparve all’improvviso alle spalle dell’uomo l’orribile ombra mai dimenticata. Atterrita da quella visione cercò di allontanarsi dalle sue braccia, cercando di non farsi toccare. Senza rendersene conto però, durante quella breve quanto concitata fuga, un bottone della giacca dell’uomo le era scivolato in tasca.

Dopo quella sera, Chiara non volle più arrischiarsi ad uscire. Continuava a guardare notte dopo notte – soprattutto quando c’era la luna piena – oltre il boschetto, ma non vedeva mai nulla in grado di attirare la sua attenzione. Il desiderio di quell’uomo cresceva dentro di lei rendendo l’ombra del suo occhio sempre più evidente.

Le ci vollero molti giorni prima di accorgersi che aveva trattenuto qualcosa di molto prezioso, ovvero il bottone riflettente quella strana luce. Quando lo stringeva nel pugno – chiudendo gli occhi – poteva vederne il proprietario. Al pari di una sfera di cristallo, le permetteva di individuare dove si trovava e quello che stava facendo. Era diventato così consolante fermarsi e pensare a lui. Comprendeva che non era educato sbirciare nella vita di quell’uomo, ma non ne poteva davvero fare a meno, era più forte di lei. Quando la luna piena in cielo risplendeva beata e tutti dormivano, ella portava il bottone alla sua presenza e questi illuminava a giorno quanto le era accanto.

Quel bagliore non passò inosservato al diretto proprietario, il quale seguì la luce – come incantato – fino a giungere alla fattoria di Chiara, che lo invitò ad entrare. Mentre i loro occhi si incrociarono una fitta attraversò entrambi. Egli non si rese conto di chi aveva davanti, perché il resto del viso della fanciulla era rimasto in ombra. Il profumo del Mate – l’infuso tipico argentino – aveva aromatizzato l’ambiente al punto da ipnotizzarlo. Senza nemmeno rendersene conto si sentì improvvisamente più rilassato e affamato. Afferrò un raviolo di Empanadas che si trovava davanti a lui sul tavolo e le raccontò di aver sentito l’impulso di seguire una luce che poi, era stranamente svanita nel nulla.

Con i suoi lunghi capelli Chiara cercava di coprirsi il più possibile il viso e lui – che non la vedeva da anni, non riuscì a riconoscerla. Il gaucho le parlò del bottone scomparso da quella giacca, che era appartenuta al padre. L’unico ricordo ancora tangibile rimastogli. Ella fece finta di non saperne nulla. Restituirlo avrebbe voluto dire perderlo per sempre e per quanto ciò la facesse sentire in colpa, non riuscì a svelare il suo segreto. Stava per lasciarlo andare con una stretta di mano, che non si rese nemmeno conto di aver allungato, quand’ecco l’ombra nera apparire nuovamente minacciosa, come infastidita da quel tocco. Chiara fece un salto indietro e il suo viso non più coperto venne riconosciuto. In quell’istante altre due ombre nere comparvero dietro le spalle dell’uomo. Chiara iniziò a gridare, mentre lui non si capacitava del perché lo stesse facendo. Più si avvicinava più lei lo scacciava urlando.

Vedendo la sua agitazione, egli decise di allontanarsi e mentre la vedeva raggomitolarsi in un angolo, sentiva che gli era impossibile abbandonarla. Chiara lo guardò sedersi a terra muto, in attesa di una spiegazione. Si sarebbe aspettata una fuga, invece era ancora lì, davanti a lei. Rassicurata da quel comportamento si decise a tirare fuori dalla tasca il bottone e aprendo la mano glielo mostrò sotto un raggio di luna che filtrava appena dalla finestra.

Ancora una volta si compì la magia. Il bottone illuminò l’ambiente a giorno. Non ebbero più dubbi sulla loro identità, quando sentirono i loro cuori accendersi. Anche le ombre però riapparvero, spaventate da un nuovo timido tocco. Lei decise di confidargli il suo segreto. Gli disse che poteva vedere cose che altri non potevano vedere e che dietro di lui vi erano tre ombre nere. Lui stentò a crederle, ma lei si avvicinò mostrando l’ombra nel suo occhio. Quando lui la vide retrocesse infastidito, ma Chiara aveva pronta la soluzione per entrambi.

«Permettimi di parlare con quelle ombre e forse scopriremo chi sono e cosa vogliono.»

Quella dal ghigno ironico, si chiamava Presunzione ed era stata la prima ad allontanarli. La seconda dai denti aguzzi come una tagliola era Rabbia, mentre la terza, dagli occhi color vermiglio, si chiamava Dolore.

Lui non si capacitava di come aveva permesso a quelle presenze di stargli accanto e loro non lo volevano rivelare, ma il problema più grande era come cacciarle via, dal momento che non sembravano intenzionate a lasciarlo. Mentre rifletteva sul da farsi, Chiara sentì il bottone farle male nel pugno stretto. Aprì la mano e il raggio di luna colpendo la pietra – che vi stava sopra – illuminò la stanza, facendo scappare l’ultimo dei tre demoni.

Osservando meglio l’oggetto scoprì una piccola scritta e lesse forte:

«AMORE! Ma certo, è chiaro! L’Amore vince il Dolore! Perché per amore si può sopportare e rischiare, come stiamo facendo noi due ora. Guardiamo cosa c’è scritto negli altri due bottoni, presto!»

L’uomo prese il secondo bottone tra le mani, ma non riusciva a leggervi nulla, così decise di strapparlo dalla giacca per allungarlo a lei, nella speranza che riuscisse a trovare un’altra parola utile e così fu. Una volta nelle sue mani, Chiara lesse forte:

«“PACE!” Solo la pace può distruggere la guerra, l’odio, il risentimento, il rancore, e la pace viene dal perdono.»

Il gaucho cominciò a piangere, perché aveva perso i genitori da piccolo e il rancore per essere rimasto solo non lo aveva mai abbandonato. Quelle lacrime scivolando sulle sue guance, cominciarono a lavare anche l’ombra nera che si chiamava Rabbia e gli si era posizionata in grembo. La commozione che Chiara provò per lui, lavò via anche il suo risentimento e con esso, una parte del velo che copriva il suo occhio, senza che se ne rendesse conto.

Nel frattempo, passando da un lato all’altro delle spalle dell’uomo, l’ultima ombra smaniava col desiderio implicito di non lasciarlo.

«Presto stacca anche l’altro bottone, guardiamo cosa vi sta scritto sotto!» gli disse Chiara allungando le forbici. «UMILTA’!»

Al contrario di Chiara, l’uomo non fu colto da entusiasmo, anzi si rabbuiò dando maggior soddisfazione alla sua ombra. Alzatosi in piedi stava per andarsene quando si sentì domandare:

«Ma come? Ora che sai cosa serve, non vuoi liberarti anche di questa?» quasi in preda alla disperazione cercò di trattenerlo «Se non lo fai tu, come potrò liberarmene io

Dopo quella frase, l’ultimo velo cadde dal suo occhio. L’ombra aveva ceduto il posto alla luce nel momento in cui lei aveva riconosciuto di non poter far nulla con le sue sole forze. Lo guardò invitandolo a fare altrettanto, ma l’uomo alzò tristemente le spalle e se ne andò via, mentre quella figura oscura gli saltellava da lato a lato baldanzosa.

Il gaucho era scomparso alla sua vista da qualche minuto, quando Chiara si ricordò di avere ancora il suo bottone. Corse alla terrazza aprì il pugno. Guardò per un’ultima volta il bottone che emanava luci intermittenti. Richiusa la mano lo lanciò lontano. La pietra liberò nell’aria danzanti riflessi colorati, che poi caddero in un imprecisato posto, prima di spegnersi definitivamente.

«Spero tu possa trovare il tuo bottone e con esso, la forza di liberarti dalla tua ombra.» disse a bassa voce Chiara.

Chiuse seraficamente la finestra. Si accoccolò sotto la coperta e appena appoggiò la testa sul cuscino, udì distintamente una voce rispondere: GrazieEra la parola necessaria affinché anche lui si liberasse della sua ombra.

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LA PROFEZIA DEL NONO MAGUS

Dal romanzo inedito “Le figlie del Sole” 

LA PROFEZIA DEL NONO MAGUS 

Un giorno qualunque, il Prof. Magus stava studiando le sue carte quando, venne folgorato da un’illuminazione. Corse al telescopio e poi di nuovo alle mappe celesti. Prese le squadre, il compasso e ancora avanti e indietro da un posto all’altro della biblioteca fino ad urlare il nome del suo aiutante, lungo l’interminabile scalone che lo separava dall’esterno.

«Pluto! Pluto! Plutone!» cominciò ad urlare l’astrologo «Dove sei? Presto vieni qui!»

Affannato un ragazzo di circa quattordici anni probabilmente affetto da nanismo, con il fiatone e un secchio pieno d’acqua in mano, si fermò cadendo in ginocchio davanti a lui.

«Cosa ci fai con quel secchio in mano? E perché ci hai messo tanto?» chiese piuttosto alterato il professore.

«Stavo lavando le scale e ho fatto fatica a salire. Il secchio è piuttosto pesante.»

Il povero Magus alzò gli occhi al cielo.

«Non potevi lasciarlo dov’era?»

«Non ci avevo pensato. Ora lo porto giù e torno

«Fermo lì. Lascia stare tutto! E’ un momento troppo importante.» rispose investendolo con il suo entusiasmo «Sta succedendo una cosa incredibile!» Con una mano lo invitò a seguirlo al telescopio, per poi avvicinarsi a lui così tanto che il povero Plutone sgranò gli occhi preoccupato «Ricordi cosa dissi riguardo la profezia del Nono Magus? Quello che da secoli stavamo aspettando, sta per compiersi. I tre giorni di buio stanno per arrivare e dobbiamo fare molta attenzione a dove cadrà il Crystal Ignis. Solo il meteorite di fuoco potrà salvarci dalla distruzione totale. Lui e le cinque prescelte.» Parlava in maniera concitata con una palese soddisfazione.

«Io però non ho ancora capito bene come faremo a trovarle?» lo apostrofò incredulo il suo ascoltatore «Non sarebbe più semplice prendere noi la pietra? A che ci servono delle donne?»

«Certe volte ho come l’impressione, che tu sia un caso perso…» rispose scuotendo la testa «Come potrai sostituirmi?» Si sedette sfiduciato e stanco picchiettandosi le sopracciglia con i polpastrelli. Per lui, il metodo più immediato per rilassarsi. Acquietato da quel gesto consolatorio alzò lo sguardo e proseguì «Non sono donne comuni. Sono bambine che grazie ai frammenti di questa pietra avranno dei poteri speciali, tutti differenti e fondamentali per far funzionare il Crystal Ignis. Loro sono la chiave. Potranno prenderlo in mano senza danno e scatenare il loro potere fino a sconfiggere il buio. Credo di avertelo detto almeno un milione di volte!»

Il ragazzino non sembrava molto convinto.

«Siamo solo due e dobbiamo seguire la traiettoria di una cometa e di cinque schegge della stessa con queste attrezzature che cadono a pezzi come la nostra torre? … non ce la faremo mai!» obbiettò Pluto e preso il suo secchio stava per scendere nuovamente le scale.

«La scienza ci verrà in aiuto.» si affrettò a controbattere il Prof. Magus posizionandosi davanti a lui «Registreremo il fenomeno e attraverso i calcoli, troveremo il punto esatto in cui cadranno. Non possiamo affidarci solo alla profezia, dobbiamo fare la nostra parte. Siamo anche noi dei prescelti. Il destino dell’umanità è nelle nostre mani!» Più che mai eccitato lo aveva afferrato per la felpa, come per scuoterlo dal suo torpore.

Se è davvero così… forse dovrei provare a terminare il mio gioco on line invece di lavare i pavimenti, perché sarà davvero la fine” pensò Pluto senza aver il coraggio di condividere il pensiero appena espresso nella sua mente. Per quanto amasse guardare il cielo, non credeva di essere in grado di leggere le stelle, non credeva più nemmeno alla possibilità da parte degli uomini di interpretare i movimenti dei pianeti, anche se attribuiva al professore una buona dose di volontà e determinazione nel provarci. Credere in un futuro catastrofico, era per lui come pensare che un giorno avrebbe visto un unicorno volare. Cresciuto tranquillo su quella montagna dall’età di dieci anni, con quell’esaltato professore di astronomia, che sembrava eccitarsi un po’ troppo davanti ad una stella cadente, mentre lui dal telescopio non riusciva a vedere la metà di quello che gli suggeriva, era pretendere troppo. Voleva continuare la sua esistenza senza eccessive emozioni.

«Tranquillo Prof., non vi agitate o dovrò portarvi le pillole per la pressione! Ce la faremo a sopravvivere tutti. Le ragazze – a quanto dice – sembrano in gamba e con i super poteri troveranno la pietra e ci salveranno. Se questa è la profezia, per quale motivo preoccuparsi? Per giunta, cosa c’entriamo noi?»

L’astronomo comprese che non poteva fare affidamento su quel giovane inesperto e poco incline a comprendere la sua scienza. Come pretendere che capisse i suoi affanni? Affondò definitivamente rassegnato la testa tra le sue carte e continuò i suoi studi in attesa del grande evento.

 

Ecco, cari lettori, come inizia la nostra storia. Come avrete capito la missione non è semplice, ma di certo questi due risoluti personaggi ce la metteranno tutta. Prima di vedere come però, voglio parlarvi di queste cinque prescelte dall’astro più luminoso della nostra galassia e di come l’incontro con questa fatidica scheggia le renderà tutte sorelle, tutte speciali e straordinariamente importanti per la salvezza del nostro pianeta; riservando conseguenze inimmaginabili anche per coloro che avranno la fortuna di conoscerle.

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NONO CAPITOLO di ERASMO II

Dalla seconda serie “ERASMO OGNIBENE E LA SUA FAMIGLIA SPECIALE”

Tutti per uno, uno per tutti

Il nostro gruppo sembrava essersi di nuovo affiatato. Questa missione che avevamo in comune ci stava facendo avvicinare e divertire di nuovo, come all’inizio dell’anno. E non è tutto, il piano C sembrava funzionare davvero.

Quando la biondina si vide rifiutare la merenda da Matteo, ci rimase malissimo e andò ad offrirla ad Attilio, proprio come avevamo pianificato. Forse inizialmente voleva solo farlo ingelosire, ma alla fine scoprì di essere più contenta così.

Purtroppo però, fece una cattiva pubblicità con le altre femmine riguardo a Matteo, che vide calare il numero delle merendine sul suo banco e si affrettò a chiedere un risarcimento danni ad Attilio, che per qualche tempo acconsentì a dargli la sua di merenda, tanto la biondine gliene portava una squisita ogni giorno. Poi arrivò un’altra femmina nel nostro gruppo una certa brunetta con i capelli corti corti, quasi da maschio.

Violetta che corre velocissima con il pallone.

Alla fine non riuscivamo mai a stare tutti insieme perché loro avevano sempre le loro ragazze, così le chiamavano, mentre io mi sentivo a disagio da solo.

Cercai di attaccare discorso con la femmina dalle codine rosse che sembrava non essere più interessata a me. Ma lo feci solo, dopo che vidi come era brava a correre dietro al pallone. Nessun bambino la voleva perché era una femmina, ma io che avevo capito che non era come tutte le altre, dissi che dovevamo darle una possibilità.

Così abbiamo fatto una gara. Io sono molto bravo a correre dietro al pallone, ma Matteo è bravissimo a fare goal, così le ho proposto di fare una gara con lui, per vedere chi ne faceva di più e nonostante abbia vinto Matteo, lei ne ha fatti davvero tanti.

A quel punto, tutti hanno accettato di farla entrare nella squadra di pallone e io ero molto felice nel vederla contenta. Ora avevamo tutti una ragazza, ma questo ci portava a dover stare troppo tempo con loro, così ho indetto una riunione con Attilio e Matteo.

«Sei sicuro che sia una buona idea far entrare nel nostro gruppo le femmine?» chiese Matteo.

«Non possiamo fare diversamente, tanto sono sempre attaccate a noi.» risposi rassegnato.

«A me non dispiace affatto quando mi sta vicino.» disse sospirando Attilio.

«E immagino nemmeno quando ti porta la mia merenda.» aggiunse Matteo.

«Non è più la tua merenda e nemmeno la tua ragazza, ma ora che siamo di nuovo tutti insieme, se ci sono anche loro possiamo fare le cose senza dividerci. Loro staranno a fare le loro chiacchierate e noi le nostre. Secondo me potrebbe funzionare.» disse Attilio.

Abbiamo votato e alla fine anche le femmine sono state ammesse come supporto dei Tre moschettieri, così ci siamo chiamati. A loro andava bene lo stesso perché potevano entrare nella nostra tenda dei maschi.

Guardando il nostro gruppo così numeroso mi sono reso conto che siamo diventati grandi. Attilio si è riempito di coraggio con questa storia dell’innamoramento. Sembra molto più sicuro ed è migliorato anche a scuola, perché vuole fare bella figura.

Matteo non fa più lo sciocco con le femmine, perché altrimenti la sua brunetta lo pizzica con la punta della matita.

Anch’io mi sento più grande. Il mal di pancia è passato e ora in compagnia di Violetta mi sento semplicemente bene. Amo guardare i suoi grandi occhi color nocciola e il suo sorriso mi fa dimenticare tutti i problemi, anche quelli di matematica, infatti non devo assolutamente pensare a lei quando c’è il compito in classe.

Le femmine hanno davvero dei poteri incredibili, ma io non lo confesserò mai a nessuno questo segreto, altrimenti chi le trattiene più e chissà cosa potrebbero farci… magari ci addormentano tutti come sa fare mamma o ci fanno ammalare di mal di pancia ogni volta che vogliono… meglio non dire niente e fare sempre molta, molta attenzione.

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OTTAVO CAPITOLO di ERASMO II

Dalla seconda serie “ERASMO OGNIBENE E LA SUA FAMIGLIA SPECIALE”

Una strana malattia

«Erasmo alzati, è ora di andare a scuola. Come mai sei ancora a letto?»

«Non mi sento bene mamma… devo avere la febbre.»

Mia madre mi provò la temperatura, ma sembrava normale. Allora le dissi che avevo mal di pancia. Ma non sembrò convinta nemmeno davanti alla mia migliore interpretazione di un bambino malato e sofferente.

«Avanti Erasmo, dimmi la verità. E’ sempre a causa di quella bambina

Mi ripresi subito cercando di farle capire che davvero non c’era nessuna femmina nella mia vita, e l’unico ad essere innamorato era Attilio, ma non mi volle credere.

«Allora alzati e preparati per andare a scuola. Oggi devo portare Alice dalla pediatra per la solita visita di controllo e non posso lasciarti a casa da solo, a meno che tu non voglia venire con noi

La migliore interpretazione di un bambino malato e sofferente di Erasmo

Quando disse così mi ripresi subito e corsi al bagno. Non avevo nessuna voglia di andare dalla dottoressa dei bambini piccoli, io ero già grande e come mio fratello avrei dovuto avere un maschio per dottore. Dopo tutto sono un uomo e non mi va di essere visitato da una femmina. Ogni volta mi mette un bastoncino in bocca per vedermi la gola che mi fa venire da vomitare e poi mi controlla le orecchie, mi spinge la pancia, … “Meglio andare a scuola e rischiare di vedere la bambina che non la smette mai di parlare.” Mi dissi rassegnato.

Mentre facevo colazione mi consultai con mia sorella che sul seggiolone giocava con un biscotto mezzo inzuppato nel latte.

«Alice… perché le femmine non sono tutte come te? Tu trovi sempre il modo di divertirti, non dici mai niente, urli, sì ogni tanto, ma solo per farti capire e quando ce n’è bisogno. E poi sono sicuro che quella tipa non sa nemmeno giocare a calcio, mentre tu diventerai bravissima da grande e giocherai con me, visto che Ilario sembra che non ne abbia più tanta voglia, ora che è alle medie.»

Lei mi sorrise e mi allungò il suo biscottino smagiucchiato. Io declinai il suo regalo e lei facendo una faccia triste si mise a piangere… allora ho dovuto prenderlo per farla smettere, altrimenti la mamma si sarebbe arrabbiata con me. E infatti ricominciò a sorridere divertita. Senza volere mi aveva dimostrato che le femmine non accettano i rifiuti. Anche questa era una lezione che poteva tornarmi utile.

Una volta a scuola cercai di parlare subito ai miei amici.

Alice mentre offre il suo biscottino ad Erasmo

«Dobbiamo rimanere uniti o le femmine conquisteranno il pianeta facendo venire a tutti il mal di pancia. Secondo me credono di essere più furbe di noi, ma ho scoperto che hanno molti punti deboli, per esempio non sopportano di essere rifiutate!» dissi loro.

«Cosa vuoi dire?» mi domandò Matteo.

«Che se una femmina ti offre qualcosa e tu lo rifiuti se la prenderà tantissimo, quindi tu Matteo se la biondina ti offre la merenda non devi accettarla per nessun motivo.» gli spiegai.

«Vuoi dire che le mangi ancora la sua merenda?» Chiese Attilio facendosi avanti con fare minaccioso.

«E’ lei che me la offre e sono buonissime le sue focacce e tutto quello che fa sua madre. Ve l’ho già detto che è una fornaia?» si giustificò Matteo.

«Non ha importanza quanto sia brava. Se davvero non ti importa nulla di lei devi lasciarla ad Attilio. Dopo tutto questi erano i patti e tra amici non ci si porta via la femmina. E’ un codice d’onore che tutti gli uomini seri rispettano. Lo dice sempre anche mio fratello.» Avevo un tono davvero serio e abbassando la testa fece cenno di aver capito. Suo malgrado avrebbe accettato anche quella rinuncia per l’amicizia.

«E io? Devo mangiarla io?» chiese contento Attilio.

«Solo se te la offre, ma tu devi smetterla di fare il suo servo. Basta portarle lo zaino e occuparti di tutti i suoi capricci.»

«Ma ormai mi sono abituato.» si dispiacque Attilio.

«Il problema è che anche lei si è abituata e di sicuro se smetterai sentirà la tua mancanza. Non potendo più dare la merenda a Matteo che non la vuole, magari la darà a te. Sperando che ricominci a fare quello che facevi prima. Ma non dovrai più essere come prima, dovrai diventare un po’ più duro, solo un po’ più come Matteo, ma non troppo.»

«Non mi sembra molto facile, devo essere servizievole, ma non troppo, gentile, ma duro. Forse conquistare una femmina non fa per me.»

«Non ti abbattere amico. Nella vita le cose difficili sono sempre le migliori e poi ti aiuterò io e anche Erasmo, ti aiuteremo entrambi. Vedrai che ce la farai.» gli disse Matteo sorridendo.

Io ero molto commosso. Finalmente vedevo dei risultati. Eravamo tutti uniti gli uni per gli altri come i tre moschettieri. Il piano C sarebbe stato un successo.

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SETTIMO CAPITOLO di ERASMO II

Dalla seconda serie “ERASMO OGNIBENE E LA SUA FAMIGLIA SPECIALE”

Le femmine non sono tutte uguali

Quel giorno a scuola non ebbi il coraggio di dire ad Attilio di smetterla di servire la biondina in tutti i suoi capricci, perché vedevo, che nonostante lei fosse così indifferente, a lui non dispiaceva, anzi era contento di farle da servo. Anche Matteo era peggiorato, infatti non si limitava più a fare l’antipatico con le ragazze, ma lo faceva anche con me.

Durante l’intervallo mi misi a sedere sul muretto vicino alla fontanella. Guardavo le formiche facendo il broncio, quando alle mie spalle ho sentito la voce di una femmina. Mi sono voltato arrabbiato, era tutta colpa loro se mi trovavo in quella situazione. Vidi una bambina con i capelli rossi e due buffe codine, la riconobbi subito. Questa l’avevo notata altre volte, perché sembrava diversa dalle altre.

«Ciao, che fai? Conti le formiche?»

Violetta raggiunge Erasmo mentre conta le formiche

Cominciai a balbettare. Lei mi guardò fisso e le scappò una risatina, che mi dette piuttosto fastidio. Io ero lì, davanti a lei con la bocca aperta, non riuscivo a parlare e lei mi stava prendendo in giro. Feci la faccia da arrabbiato. Nella speranza che si prendesse paura e andasse via, ma continuava a guardarmi e io mi sentivo sempre più imbarazzato.

Poi con un sorriso mi ha salutato prima di correre verso le sue amiche. Mi sentivo tutto scombussolato. La pancia mi stava brontolando come quando torno da un allenamento di pallone e ho una fame esagerata. Poi ho sentito che dovevo andare al bagno.

Mi spaventai pensando di essere stato contagiato. Io proprio non volevo innamorarmi, per essere rifiutato come Attilio o antipatico come Matteo o peggio ancora un burattino come Ilario. Ero l’unico rimasto ancora normale e non avrei mai permesso ad una femmina di stravolgermi l’esistenza.

Il giorno dopo mi misi a sedere nello stesso posto. In realtà speravo di rivederla per dimostrarle che ero un duro e che non mi facevo prendere in giro da nessuno, tantomeno da una femmina. Ma non si fece vedere. Magari era rimasta a casa anche lei con il mal di pancia, pensai.

Ricominciai ad immergermi nei miei pensieri disturbando qualche formica, fino a che non vidi una lucertola. E stavo ancora cercando di prenderla quando sentii nuovamente quella voce.

«Ciao, oggi giochi con le lucertole? Tu sei bravo a prenderle? Lo sai che se le prendi per la coda, loro la lasciano e se ne scappano senza? E lo sai che la coda continua a muoversi lo stesso anche senza il corpo

In quel momento rimpiansi di non essermi fermato a disturbare le formiche, perché mi stava facendo una serie di domande a raffica, senza nemmeno darmi il tempo di rispondere. Certo che le femmine sono proprio insistenti, mi dissi.

La lucertola che non si è fatta prendere da Erasmo

«Ma tu non parli mai?» mi chiese continuando a parlare alla velocità della luce. «Io mi chiamo Viola, ma mi chiamano tutti Violetta? Tu preferisci il nome Viola o Violetta? Forse ti sto facendo troppe domande, me lo dicono tutti che parlo molto e anche molto velocemente, a te dà fastidio? Sai che sei carino? Però non mi hai ancora detto come ti chiami

«Erasmo. Io mi chiamo Erasmo Ognibene.» mi affrettai a dirle prima che ricominciasse a parlare.

«Non conosco nessuno con questo nome. Ma mi piace. Ci vediamo domani? Ciao

Io volevo dirle che non avevo mai conosciuto nessuno in grado di parlare così velocemente, ma non ne ebbi il tempo, perché in un baleno era sparita. Non avevo capito bene cosa fosse successo, ma di nuovo dovetti correre al bagno per il forte mal di pancia. Forse avevo preso l’influenza o forse Attilio mi aveva contagiato. Ora al primo banco eravamo in due a sospirare, a guardare fuori dalla finestra e ad essere ripresi dalla maestra perché non prestavamo sufficiente attenzione durante la lezione, ma quegli occhi grandi e quel sorriso, non riuscivo proprio a togliermeli dalla testa.

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SESTO CAPITOLO di ERASMO II

Dalla seconda serie “ERASMO OGNIBENE E LA SUA FAMIGLIA SPECIALE”

I consigli di mamma Olivia

Chiedere consigli d’amore a mia madre mi faceva sentire terribilmente in imbarazzo. Pensai da principio che le cose si sarebbero risolte da sole, ma non fu così. Più il tempo passava e più la situazione peggiorava, anche tra noi.

Matteo Goldoni inseguito dalla biondina

Matteo cominciò a trovarsi bene nei panni dello schiavista. Faceva fare di tutto a quella biondina, è arrivato addirittura a farsi fare i compiti di matematica e a farsi portare una merenda tutti i giorni. Questa invece di arrabbiarsi lo guardava come si guarda la partita di pallone la sera dei mondiali.

Attilio per la depressione lo avevano portato dal consulente scolastico, ma non era molto bravo a parlare dei suoi problemi personali con gli estranei e invece di migliorare era peggiorato, non parlando più nemmeno con me.

Una volta ho visto in televisione un tale che ipnotizzava la gente. Era bravissimo a farle fare quello che voleva. E’ riuscito a trasformare anche un uomo in una gallina. Proprio quello che serviva a noi, qualcuno che ipnotizzasse la biondina per farla innamorare di Attilio. O meglio ancora, che riuscisse a disinnamorare Attilio. Peccato non conoscessi nessuno con quel potere, di certo poteva tornarmi molto utile.

Vista la gravità della situazione pensai che l’unica arma rimastami fosse mia madre. Quella sera vedendomi piuttosto pensieroso, mi venne vicino. La sua voce dolce e le sue carezze mi ricordarono che aveva il dono di addormentare e mi spostai subito impaurito…

«Erasmo, tesoro, ti vedo alquanto nervoso ultimamente, mi spieghi cosa ti è successo

«E’ che abbiamo litigato, io Matteo Goldoni e Attilio Semprini. Eravamo sempre insieme, ma ora che Attilio si è innamorato di una femmina che si è innamorata di Matteo, litighiamo sempre.»

«Addirittura innamorato. Attilio

«Sì… Inizialmente gli avevo suggerito di fare come Ilario, che mostra i muscoli e la mezza faccia da duro, ma non ha muscoli e non è nemmeno capace di fare il duro. Poi ho chiesto anche a papà che mi ha detto di come era innamorato della zia, ma poi ti ha fatto innamorare…»

Erasmo e mamma Olivia

«Cosa, cosa? Lui mi ha fatto innamorare

«Si papà mi ha detto che è diventato antipatico apposta alla zia, così poi lei lo ha lasciato a te che con i suoi complimenti, ti eri innamorata di lui.»

«Ma senti un po’ che bella storia, peccato che io non la ricordi affatto così. Mi sa che io e papà dovremo fare due chiacchiere. Comunque se volete conquistare una donna non bastano le smancerie. E a volte essere troppo servizievoli fa l’effetto contrario.»

«Se mi dici così, vuol dire che questa biondina è proprio il contrario, come dici tu. Perché si è attaccata ancora di più a Matteo che fa l’antipatico, mentre Attilio che la serve in tutto e per tutto, non lo guarda nemmeno.»

«Le donne non sono così semplici come può averti detto tuo padre. Lui di donne non se ne intende, te lo dico io. E perché tu lo sappia, sono io ad averlo fatto innamorare di me. La sera che è venuto a casa nostra facevo la sostenuta, ma ho visto come mi guardava e avevo capito subito che era interessato più a me che a mia sorella

Rimasi un tantino confuso.

«Non è che ci ho capito molto. Io vorrei solo sapere come far innamorare questa femmina di Attilio, così torniamo tutti amici come prima.»

«Allora, se hai detto che ha già adottato la tecnica dei complimenti, che è stato più che mai servizievole con lei e non ha funzionato, allora ora dovrebbe smettere proprio di fare tutto questo e fingere che non esista. Solo così potrà sentire la sua mancanza e accorgersi che non è più vicino a lei. Se nemmeno così funziona, mi spiace, ma credo non ci sia proprio nulla da fare per il tuo amico

Il ragionamento di mamma non faceva una piega. Quando ti sei abituato a qualcosa se poi te la tolgono ci rimani male. Se in questo periodo di tempo questa biondina ha dato per scontato che Attilio le facesse sempre tutto, anche i compiti che poi passava a Matteo, quando vedrà che non è più così disponibile, potrebbe essere lei a cercarlo. E Matteo cosa dovrebbe fare per allontanarla? Cambiare anche lui e tonare come prima, oppure … mi sentivo la testa scoppiare.

Mi misi a letto e decisi di dormirci su.

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